A’ Livella di Antonio De Curtis, in arte Totò, è uno dei testi della tradizione napoletana più belli e appassionanti del novecento. Molto utile da utilizzare come testo di riferimento per parlare con bambini e ragazzi della festa del 2 Novembre: Ognissanti.
La poesia è ambientata in un cimitero, dove un malcapitato rimane chiuso. Questi assiste incredulo al discorso tra due ombre: un marchese e un netturbino. Il marchese si lamenta del fatto che il netturbino si sia fatto seppellire accanto a lui, ma il netturbino gli fa notare che non è stato lui a scegliere dove esser seppellito; vedendo che il marchese continua con il suo lamento, il netturbino perde la pazienza e gli spiega che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali.
L’intera poesia ha come tema fondamentale quello della morte, una morte che però non fa paura, al contrario è fonte di umorismo e teatralità, in un tentativo di sdrammatizzazione atto a consentire al lettore di apprezzare non solo la poesia in sé e per sé, ma anche il suo messaggio, che si serve della morte per esaltare la vita: la morte è brutta ma ha un pregio, quello di essere uguale per tutti, e anche se nella vita uno ha goduto di onori e privilegi e un altro invece ha vissuto una vita di stenti, difficoltà ed insuccessi, la morte non fa sconti a nessuno. Entrambi questi signori hanno il medesimo spazio e sono nel medesimo luogo, quindi la morte ha in sé un concetto di uguaglianza che non ha riscontri in nessuna situazione, agisce quindi come una livella.
Ogni anno, il due novembre, c’é l’usanza di andare al Cimitero per i defunti. Ogni uno deve fare questa gentilezza; ogni uno deve tenere questo pensiero. Ogni anno, puntualmente, in questo giorno, di questa triste e mesta ricorrenza,anch’io ci vado,e con dei fiori adorno la tomba di mia zia Vicenza. Quest’ anno mi è capitata un’avventura…dopo aver compiuto il triste omaggio. Mamma mia! Se ci ripenso, e che paura!, ma poi mi diedi anima e coraggio. Il fatto è questo, statemi a sentire: si avvicinava l’ora della chiusura: io, calmo calmo, stavo per uscire dando però un’occhiata a qualche tomba. “Qui dorme in pace il nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno ardimentoso eroe di mille imprese morto l’11 maggio del’31” Uno stemma con la corona sopra a tutta la dicitura e sotto una croce fatta di lampadine; tre fasci di rose e facendovi una lista:candele, candele sottili e sei lumini.
Proprio all’altezza della tomba di questo signore ci stava un’altra tomba piccolina, abbandonata, senza neanche un fiore; per simbolo, solo una piccola croce. E sopra alla croce appena si leggeva: “Esposito Gennaro -netturbino“. Guardandola, che pena che mi destava questo defunto senza neanche un lumino! Questa è la vita! pensavo tra me e me…chi ha avuto tanto e chi non ha avuto niente! Questo pover’uomo si aspettava che persino una volta morto continuava ad essere una persona povera? Mentre riflettevo questo pensiero, si era già fatta quasi mezzanotte, e rimasi rinchiuso prigioniero, morto di paura…davanti alle candele.
Tutto ad un tratto,che cosa scorgo da lontano? Due ombre avvicinarsi dalla mia parte …Pensai: questo fatto mi sembra strano…Sono sveglio…o dormo e stò sognando? Ma altro che fantasia; era il Marchese: col cilindro, la caramella e col pastrano;e l’altro vicino a lui un brutto arnese; tutto lurido e con una scopa in mano. E quello certamente è il signor Gennaro…il morto poverello…lo spazzino. Ma questa visione non mi è chiara:sono morti e si ritirano a quest’ora? Erano un palmo vicino a me,quando il Marchese si fermò di botto,si girò e con fare indifferente..calmo calmo,disse al signor Gennaro: “Giovanotto! Da Voi vorrei saper, vile carogna, con quale ardire e come avete osato di farvi seppellir, per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato! La casta è casta e va, si, rispettata, ma Voi perdeste il senso e la misura; la Vostra salma andava, si, inumata; ma seppellita nella spazzatura! Ancora oltre sopportar non posso la Vostra vicinanza puzzolente, fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso tra i vostri pari, tra la vostra gente. “Signor Marchese, non è colpa mia, io non vi avrei fatto questo torto; mia moglie ha fatto questa sciocchezza, e cosa potevo fare io se ero morto? Se fossi ancora vivo vi farei contento, prendere una modesta bara con queste quattro ossa mie da morto e proprio ora,lo vedete?…in questo momento mi collocherei dentro quest’altra fossa”. “E cosa aspetti, oh turpe malcreato, che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!”“Fammi vedere, piglia questa violenza…La verità, Marchese, mi sono scocciato di sentirti; e se perdo la pazienza, mi scordo che sono morto e sono botte! Ma chi ti credi di essere…un dio? Quà, dentro lo vuoi capire,che siamo uguali? Morto sei tu e morto lo sono anche io; ogni uno che è morto e sepolto, quì dentro è tale è quale ad un’altro morto”.
“Lurido porco!…Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali?”.”Ma quale Natale…Pasqua e la Befana!!! Te lo vuoi mettere in testa…impresso nel cervello che non ti rendi conto ancora che ormai non ci sei più?…La morte lo sai che cos’è? è una Livella. Un re, un magistrato, un grande uomo, varcando la soglia del cimitero, dopo morto, ormai ha fatto il punto della sua vita che ormai ha perso tutto, la vita e pure la nobiltà e le ricchezze: tu per te stesso non l’hai ancora capito? Perciò, stammi a sentire…non essere restio, sopportami vicino che t’importa? Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri…apparteniamo alla morte!”